Sono tante le parole che si potrebbero usare per descrivere il dialogo “virtuale” avuto ieri sera su TwitterSpace dal titolo “Da soli o “male” accompagnati? E’ possibile la vita fraterna e comunitaria tra preti?”.
Il dibattito, nato da un tweet che ha stimolato un buon numero di riflessioni, aveva bisogno, come tutte le cose, di essere compresa alla luce di un confronto, che non può essere ridotto nel breve spazio di 140 caratteri.
Grazie all’impegno di Sinodo Digitale [@SpazioSinodale] abbiamo avuto la possibilità di dialogare, in modo più ampio e libero, così da dare, alla riflessione partita in rete, un po’ di carne mettendoci in ascolto delle esperienze concrete di chi vive in fraternità, di chi cerca di viverci e di chi desidererebbe viverci.
La stanza vocale su twitter è stata aperta alle 20:30 e sono passate a trovarci una quindicina di persone! In molti/e hanno preso parola, in tanti/e altri hanno ascoltato… sicuramente tutti sono usciti con un qualcosa in più perché, anche se virtuale, è stato un confronto vero pieno di “carne” e spirito.
Vorrei, anche se non in forma esaustiva, cercare di cogliere alcune riflessioni in modo da poterle poi completare con gli eventuali interventi dei partecipanti.
Tra le questioni emerse, penso che la necessità di ampliare il concetto di vita comunitaria, non restringendo il confine all’esperienza dei sacerdoti diocesani, ma allargandola a quella delle famiglie e delle “comunità” che vivono le nostre diocesi, sia stata tra le più interessanti perché apre ad altre riflessioni che toccano la vita delle nostre parrocchie, l’idea di parroco e la corresponsabilità dei fedeli laici nella guida della comunità.
Sebbene la storia ci racconti di esperienze di vita comune, è importante, oggi, fare i conti con la realtà che, come detto più volte durante la serata, è completamente diversa da quella che hanno affrontato le generazioni precedenti alle nostre. "Non siamo più nella cristianità, questo è un cambiamento d'epoca" sono le parole di Francesco che ci stimolano a leggere, in maniera ancora più profonda, le tematiche che abbiamo toccato.
A questo punto la domanda cambierebbe accento passando da:
“Possono (vogliono) i nostri sacerdoti vivere insieme?”
a
“Siamo capaci di costruire una comunità cristiana dove, tutti, ci sentiamo coinvolti nella gestione pastorale vivendo esperienze, ove possibile, anche di vita comune?”
Un altro tema emerso, che a mio avviso è ancora più importante, è quello legato alla “categorizzazione” dei carismi.
Fino a pochi anni fa definire un sacerdote religioso, diocesano, missionario e così via aveva un senso per tutto il popolo e non solo per chi viveva le parrocchie. Oggi all’uomo della strada, che ricordiamo è quello a cui dovremmo dare ascolto, queste categorie non dicono più assolutamente niente se non un vago residuo di qualche fiction o libro di testo letto durante il periodo scolastico.
Per questo è necessario riuscire a capire che tipo di alfabeto poter usare così da poter aprire un confronto con chi non "parla" la nostra lingua. Nello stesso tempo, però, dobbiamo avviare un processo che potrebbe richiamare la rivoluzione copernicana, decentrando dall'universo comunitario il sacerdozio ministeriale e rimettendo al centro il sacerdozio comune così da attingere alla sorgente del Battesimo che unisce tutti i fedeli al Cristo.
La mia sensazione è che, ogni volta che si tocca un tema, ne emergano altri a questo legato, lasciandomi l’immagine di un castello di carta pronto a crollare.
Forse è il momento di lasciare crollare tutto per tornare a guardare alla fondamenta del nostro essere Chiesa: Cristo pietra angolare della nostra fede.
Alessandro Conti
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